Il codice 38 di Ivrea Braulionis Episcopi et Ysidori epistule “contenente scritti di Isidoro di Siviglia, copiato probabilmente durante l’episcopato di Warmondo, tra il 960 ed il 1001” è il più antico documento europeo nel quale si parla degli scacchi (shatranj), ed è custodito nella Biblioteca capitolare di Ivrea, in provincia di Torino.
Abbiamo poi il manoscritto di Einsiedeln, redatto probabilmente nell’alta Italia e la lettera di san Pier Damiani del 1061. E ancora la scacchiera posta sull’architrave della pieve San Paolo di Vico Pancellorum vicino a Bagni di Lucca, la scacchiera sulla parete di Sant’Agata nel Mugello, le scacchiere musive delle cattedrali di Piacenza, Pesaro e Otranto in più ci sono i giocatori di scacchi arabi ritratti nella Cappella Palatina a Palermo, tutte opere databili al XII secolo.
Le cronache narrano che a Pisa, tra il 18 e il 24 gennaio 1168, ci si recava sull’Arno ghiacciato per giocare a scacchi. Con il XIII secolo le testimonianze di una presenza scacchistica in Italia si moltiplicano, segno di una veloce diffusione in tutta la penisola.
A partire dal 1061 il cardinale Pietro Damiani scrive a papa Alessandro II per riferirgli di aver punito un vescovo fiorentino per avere trascorso la notte a giocare a scacchi, sorgono problemi con la Chiesa per via dell’alea (talvolta venivano giocati con l’ausilio dei dadi), delle scommesse in denaro e perché visti come “vanità”. Gli statuti municipali furono in genere più tolleranti e i divieti riguardavano soltanto le scommesse in denaro per ovvi motivi di ordine pubblico. In molti casi gli scacchi erano l’unico gioco ammesso. Nonostante i divieti gli scacchi ebbero una notevole fortuna, specie nei castelli e nelle corti, tanto da essere annoverati tra le conoscenze indispensabili dei cavalieri.
Nel gennaio 1266 il conte Diego Novello, mentre le truppe fiorentine attaccarono Castelnuovo vicino a Cavriglia, invece di dar manforte ai suoi preferì rimanere al Bargello ad assistere all’esibizione di scacchi di un saraceno di nome Buzzecca, forse il sivigliano Abu Bakr Ibn Zubair, che giocò tre partite in simultanea, due delle quali senza vedere la scacchiera. Lo stesso Dante li cita nel canto XXVIII del Paradiso in cui paragona il numero degli angeli al doppiar degli scacchi mentre Sacchetti e Boccaccio ne fanno il filo conduttore di alcune novelle.
Fu un frate domenicano, all’inizio del XIV secolo, a trarre dagli scacchi una serie di ammaestramenti morali in un’opera che ebbe larga diffusione per tutto il Medioevo, il Liber de moribus hominum et officiis nobilium super ludo scachorum.
Il gioco ereditato dagli arabi era lento e poco adatto alle scommesse; per questa ragione nelle taverne si diffusero i partiti, specie di problemi su cui scommettere. Le raccolte di partiti più famose sono il Bonus Socius e il Civis Bononiae.